
« L’uomo è per natura un animale destinato a vivere in comunità. »
Aristotele
La proposta Back to work si traduce in tre modalità:
§ una serie di sessioni in presenza in ufficio (nel rispetto delle misure previste per la sicurezza)
che diventino esperienze diversificanti e avvaloranti per chi sceglie l’ufficio rispetto al lavoro in remoto.
I benefici derivano anche dalla presenza degli altri, ai quali ci si riavvicina progressivamente,
andando ad alimentare fiducia, connessione professionale e relazionale,
a sostegno del senso di comunità che è andato sfilacciandosi nel corso dell’ultimo anno;
§ un progetto specifico tra il relax e il reward per i lavoratori di stabilimenti produttivi e magazzini,
che non si sono mai fermati, nemmeno nei periodi più difficili,
che hanno anzi lavorato ancora più alacremente per sostenere le proprie realtà aziendali, i clienti e la società;
§ una serie di incontri periodici online per gli smart workers all’interno di un programma di wellbeing.
REASON WHY
L’attuale situazione desta preoccupazione sotto molteplici aspetti, perché i cambiamenti radicali nelle abitudini di vita, di lavoro, di comportamento, nelle certezze economiche e nei rapporti sociali e affettivi sono giunti all’improvviso e saranno valutabili solo nel lungo periodo.
Un periodo sicuramente VUCA (Volatile, Uncertain, Complex, Ambiguous) per le aziende (e non solo), come mai negli ultimi decenni.
Uno dei cambiamenti più impattanti nel mondo del lavoro è stato il fenomeno dello smart working diffuso.
Oltre Oceano il CEO di Goldman Sachs definisce lo smart working “un’aberrazione da correggere“, sottolineando il ruolo insostituibile delle connessioni in presenza.
Jamie Dimon (CEO JPMorgan) pone l’accento sulla scarsa cross-fertilization e il vuoto formativo.
E molti, anche in Apple e in Microsoft, si sono accorti che la connessione 24/24 – 7/7 causa crolli di concentrazione e diminuzione dell’efficienza, e hanno così avviato un piano progressivo di rientro dei dipendenti negli uffici.

In Italia tra la primavera del 2020 e quella del 2021, si sono contati 8 milioni di smart worker.
Prima questa modalità era utilizzata da meno di 600mila persone.
All’inizio sono emersi principalmente i plus in termini di risparmio di tempo e risorse, ma nel corso del tempo sono apparsi anche i minus: connessione permanente, multitasking, affollamento degli spazi per uno stress vicino per molti al burn out.
La cosiddetta sindrome da burn out ha amplificato la sua portata: potenzialmente sono a rischio 2 lavoratori su 3.
Molte ricerche mettono in evidenza anche l’aumento di altri disturbi: ipocondria e fobie varie, ansia, depressione, disturbi ossessivi-compulsivi, disturbo post traumatico da stress, esaurimento nervoso e casi di disagio ancora più estremi (fonte: Fondazione BRF, Brain Research Foundation).
Senza parlare della sindrome della capanna o del prigioniero che ha colpito molti di noi: la paura del mondo esterno, la paura di ammalarsi, il timore di contagiare i propri cari, la convinzione che non ritroveremo più il mondo che conoscevamo prima.
Molti oramai sono certi che restare nelle proprie abitazioni non stimola la creatività, non sollecita il potenziale di innovazione e cambiamento. Né tantomeno la socialità.
I giuslavoristi suggeriscono soluzioni basate su modelli di flessibilità organizzativa che portino almeno ad un parziale ritorno in ufficio.
Gli specialisti della salute (il Consiglio Nazionale Ordine Psicologi, l’Associazione Italiana di Psicologia, e la European Federation of Psychologists) chiedono a gran voce azioni e programmi di formazione, prevenzione e benessere, sia per chi lavora da casa, sia per chi è tornato in ufficio.
Giuseppe Pellizza da Volpedo, “Il quarto stato”,
1898-1901, olio su tela, 293×545 cm, Milano, Museo del Novecento